Where is my mind?

Questo è il mio racconto per il https://raynorshall.wordpress.com/2016/07/18/speciale-contest-estivo/comment-page-1/#comment-281  del blog di scrittura https://raynorshall.wordpress.com/

  • Il racconto non dovrà superare le 4mila parole
  • Il racconto dovrà essere di genere FANTASTICO e dovrà contenere elementi sovrannaturali (favole, fantasy, gotici, horror, future fantasy…)
  • UN testo a persona, se non verrà considerato non attinente al tema, avrete tempo per scriverne un altro
  • Il testo, stavolta, deve essere INEDITO, quindi creato apposta o comunque non postato prima

Ed ecco qui, secondo le regole del contest: Where Is My Mind?

Buona lettura!

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Un cigolio lontano riempie la note, simile a una porta antica che si apre in un antico castello con antichi fantasmi. Illusione o presenza spettrale?

Rumore di risate, anch’esse lontane, riecheggiano nella mia mente come in una cavità vuota, folli, senza direzione e senza provenienza.

Sbatto palpebre, cercando di abituare la vista al buio.

Un viso deforme mi si para davanti e sussulto di riflesso. La testa allungata, i contorni sfocati, mi fissa con i suoi occhi enormi e maligni

Serro gli occhi per scacciare la figura demoniaca e un conato di vomito.

«John, se devi vomitare non farlo sulle mie scarpe nuove.»

Una voce familiare irrompe nel mio cranio e rende tutta la scena reale.

Qualcuno grida, urla di gioia, schiamazzi acuti come il dolore al capo che li accompagna.

Mi aggrappo a un vago e vaporoso ricordo per non lasciarmi trasportare dalle tenebre, perché ora non sono io a chiudere gli occhi, sono loro a chiudersi senza il mio consenso.

Il buio cala sui sensi e mi  lascio avvolgere dalle sue spire suadenti.

 

Mi riporta a galla il rumore infinito di un ululato che mi spacca i timpani e mi perfora il cervello.

Qualcuno mi scuote e chissà come mi ritrovo in piedi sulle gambe tremanti. Ci metto un po’ di tempo prima che nella nebbia della mia vista riesca a focalizzare le luci rosse, blu e bianche della sirena della polizia, che continua a strillare nel vicolo buio.

«Muoviti, ci sono gli sbirri!», ancora quella voce familiare. Questa volta riesco a distinguere i contorni del suo volto stravolto dagli alcolici. I suoi capelli rossi e ricci mi rassicurano, ma lui, il mio amico, non pare per niente tranquillo. Mi strattona e mi lascio trascinare.

Percepisco appena i contorni del mondo che mi circonda. Sento rumori di passi rapidi sull’asfalto, qualcuno che corre.

Mi sento come se mi avessero riempito di pugni allo stomaco. Mi piego in due dal dolore, facendo fermare il ragazzo che corre, che cerca di metterci in salvo. Ma da cosa?

Sento il suo sguardo cocente su di me. Sono una zavorra.

«Ma lascialo qua, non vedi che sta collassando?»

Questa volta è una voce sconosciuta a parlare. Più acuta e flautata.

Non mi ero nemmeno reso conto che ci fosse un’altra persona con noi.

Sollevo lo sguardo e incontro il viso acerbo di una bionda.

«Non posso, se lui finisce nei casini poi ci finisco pure io!», questa volta è il rosso, Sebastian, a parlare.

La ragazza afferra un mio braccio e se lo mette attorno alle spalle e così pure lei inizia a trascinarmi vero l’ignoto. Cerco di liberarmi dalle loro strette e camminare da solo, ma il corpo non mi risponde.

Arriviamo davanti alla porta arrugginita di un magazzino, simile a quello dove eravamo prima, solo che deserto.

Prima.

Ricordo appena quello che è successo.

Una festa, come molte altre. Io e Sebastian. C’era musica. E tanta gente. Odio la gente. Eppure Sebastian riesce sempre a trascinarmi dove vuole lui.

Ricordo che ero seduto in un angolo, con il muso lungo e che mi avevano offerto da bere.

L’alcol lascia volare fuori dalla testa ogni preoccupazione, ogni barriera che la mia mente solitaria crea. Mi sciolgo.

Ricordo che dopo l’alcol era arrivata la polvere bianca.

“Ti sentirai bene”; mi avevano detto. Mi avevano illuso.

Ora nemmeno riesco a camminare.

Mi posano sul pavimento gelido del magazzino abbandonato e guardano fuori da una finestra rotta, trattenendo il fiato.

Non capisco tutto questo stress e li lascio fare. Combatto da solo la nausea che mi attanaglia.

La sirena della polizia si avvicina al nostro edificio e fila dritta, senza fermarsi.

Sento i due ragazzi tirare un sospiro di sollievo.

«Bene ragazzi. Io torno a casa», dice la bionda. Mi pare fosse con noi alla festa, ma non ricordo il suo nome.

«È tardi. Ti accompagno io, se vuoi»

Sebastian. Percepisco il suo testosterone da qua.

Un sorriso mi increspa le labbra, o almeno penso di star sorridendo. Potrei avere semplicemente l’aria di uno che sta per vomitare.

Non attendo la risposta della ragazza e biascico:«Qualcuno rimembri al mio amico che non siamo più in epoca di gesta eroiche e cavalieri che prestano ausilio a soavi donzelle, dunque questo cavillo non condurrà a piaceri licenziosi con la qui rappresentante del gentil sesso»

Percepisco vellutata una risata e qualcuno mi infila una mano in tasca. Sollevo lo sguardo e incontro gli occhi azzurrini della giovane.

«Ecco che riprende il nostro poeta! Sebastian, posso farcela da sola. Ho lo spray al peperoncino nel reggiseno. Che può essere usato anche contro di te»

Si avvia verso la porta, fermandosi sull’uscio. Solleva la mano verso il viso illuminato da un lampione. Mi sta guardando. Strizzo gli occhi e noto che tutte le dita della mano sono chiuse, tranne il mignolo e il pollice, simbolo che nel linguaggio dei gesti dice una cosa sola: chiamami.

 

Non faccio in tempo ad aprire gli occhi e a sollevare la testa dal cuscino che un forte emicrania mi da il buongiorno. Sono combattuto tra la voglia di arrotolarmi nelle coperte e lasciarmi marcire lì e quella di alzarmi e andare a vomitare.

Proprio un buongiorno.

Alla fine il mio corpo risponde ai miei istinti primordiali e mi alzo per prepararmi una colazione.

Per abitudine accendo la radio, che subito manda una canzone orecchiabile, lievemente dal tono rock, ma ci ripenso subito e la spengo.

Metto su un caffè, ma nemmeno aspetto che sia pronto, e inizio a sgranocchiare voracemente da un pacco di biscotti. Il silenzio che mi avvolge non lenisce il male alla testa, porta solo con sé una nota di malinconia. Rimpiango quella decisione di non avere coinquilini. Avrei potuto chiedere a Sebastian di vivere con me, ma a lungo andare lo avrei odiato.

Addosso ho ancora i vestiti di ieri sera, che ora, sotto la luce del sole, mi appaiono sudici e sgualciti.

Poi nella tasca dei jeans c’è qualcosa che mi punge.

Ci infilo una mano dentro e ne estraggo un biglietto. Un numero di telefono.

Ci metto un po’ prima di ricordare quello che è successo l’altra notte.

Io seduto per terra, la ragazza bionda che mi infila una mano in tasca e che poi mi gesticola di chiamarla.

Osservo il numero e mi pare che le cifre mi richiamino. Afferro il cellulare e digito: Quest’oggi non posseggo alcuna obbligazione. Perciò posso apporre la seguente domanda di convenzione sociale: ci vediamo?

Una risatina rompe il silenzio. Poso il cellulare sul ripiano della cucina e mi guardo attorno. Sono solo. Sarà l’eco delle sostanze assunte la sera prima?

La vibrazione del telefono mi strappa da quei pensieri.

È lei, che ha risposto: Ciao Jonathan, allora ti sei ricordato di me! Ci vediamo al bar dove lavora Sebastian alle 17:00?

Non ne comprendo il motivo ma quella proposta mi fa sentire deluso. Forse volevo essere solo con lei. Ma in fondo che me ne importa? Non la conosco e se la conosco non me lo ricordo.

Rispondo con un laconico “ok” e mi avvio sotto la doccia, abbandonando il cellulare in cucina e il caffè sul fornello, con il fuoco che lentamente scioglie il manico della caffettiera.

 

Restiamo in silenzio, a studiarci, lei un Martini in mano, io un semplice caffè. Percepisco le occhiate incuriosite e invadenti, e forse gelose, di Sebastian, che traffica dall’altro lato del bancone del bar. Poteva essere un incontro piacevole, se non avessi rovinato tutto all’inizio chiedendo:«Come ti chiami?»

Nonostante fossimo tutti e tre a conoscenza del mio stato la sera scorsa, la ragazza si era comunque offesa di quella dimenticanza.

Christine, Christine si chiama. Questa volta non lo avrei dimenticato. Così ho giurato, ma lei sembra comunque sulle sue. Divaghiamo parlando del tempo, come in ogni incontro sociale imbarazzante e senza un qualcosa da dirsi.

Alla fine domando di ieri sera, in modo da creare discorso:«Desidero avere delucidazioni al riguardo l’avvenimento della scorsa notte.»

«Più precisamente?», domanda lei. Studio il suo viso perfetto. Ha i canoni di bellezza che piacciono a molti uomini: bionda, alta, occhi azzurri. Solo mancante dei “parabordi”, come Sebastian usava nominare i seni.

«Perché è giunta la polizia?»

Mi spiega che qualche vicino aveva fatto una telefonata per il troppo chiasso.

Discorso morto.

Allora lei mi domanda perché parlo in questo modo.. pompato? Antico? Nemmeno lei sa definirlo.

«Perché è un sociopatico che passa le giornate a leggere», interviene Sebastian.

«Consideri migliore la tua condotta da assuefazione da videogame?»

Non percepisco la sua risposta seccata. Sento lo sguardo di Christine puntato su di me.

Cosa ci trova in me? Sebastian è un ragazzo nella norma, simpatico, come tutti, molto più socievole. Perché ha dato a me il suo numero, e non a lui?

Vedo il mio stesso riflesso nei suoi grandi occhi. Vedo un ragazzo ingobbito sullo sgabello, i capelli lunghi e neri raccolti in una coda, occhi verdi come erba congelata. Nulla di speciale, di appariscente. Una figura ibrida, dai lineamenti delicati, femminili. Cosa ci vede?

Che figo della Madonna!, la voce di Christine squilla acuta nella mia testa.

«Ritengo inopportuno invocare santi e divinità di dubbia esistenza nel comune parlato.»

«Cosa?», fa la bionda.

«Cosa?», dico, come un eco.

Sebastian si sporge oltre il bancone e ripete a sua volta:«Cosa?»

Il suo viso brufoloso scherma quello di Christine come un’eclisse.

«Dice spesso cose a caso?», domanda lei a Sebastian, come se non ci fossi.

«A volte interi monologhi!», dice lui, ridendo. Sta cercando di fare il brillante con lei. La cosa mi innervosisce.

Già è stramboide, ora è del tutto matto?

«Sarò stramboide, Sebastian, ma almeno non posseggo un QI pari a quello di un sasso», interrompo le loro chiacchiere.

Lui sgrana gli occhi e mi guarda come se fosse un gufo caffeinomane.

Lo sento balbettare qualcosa ma non gli do retta. Pago il mio caffè e il Martini di Christine e le faccio segno di seguirmi fuori dal bar.

 

Camminiamo per le vie del centro, fianco a fianco. Tengo le mani in tasca, come ad evitare ogni contatto con lei, che comunque mi cammina abbastanza vicino che percepisco il suo braccio sfiorare il mio. E il suo profumo sa di lavanda.

«Non vedevo l’ora di andarmene da lì! Ma come fai a essere amico di Sebastian?»

«Andavamo al liceo insieme e la nostra sorte di terminare con il capo nei cessi della scuola ci ha uniti», rispondo secco, sperando che lei non si soffermi su questo aneddoto di atti di bullismo.

John bullizzato? Non ci credo!

«Mi dispiace… come mai? Come un gentil uomo come te ha dovuto subire questa sorte?»

Sorrido del suo tentativo di imitare la mia parlata, poi rispondo:«Lui era il nerd della classe, io il secchione. I soliti individui cui prendono di mira.»

Cosa posso chiedergli? Sembra interessante… Non è come tutti gli altri. Mi piace per questo.

«Puoi domandarmi qualsivoglia. Però non comprendo la tua abitudine di parlare di me in terza persona»

Si ferma in mezzo alla strada e mi guarda, sollevando un sopracciglio e di nuovo dice:«Cosa?»

«Anche questa è tua abitudine, replicare:”cosa?”»

«Solo oggi lo dico così spesso, perché quello che tu mi dici, io non l’ho proprio detto!»

Resto in silenzio, a scrutare la miriade di passanti che camminano sul marciapiede, seguendo il corso delle loro vite parallele alle nostre.

«Sembra che tu mi legga nella mente»

«Perché, lo hai pensato?»

Lei annuisce. Mi gratto il capo. Che sia matto sul serio?

«Stamane quando ti ho contattata, ho udito una risata. Pareva la tua.», non capisco perché lo stia dicendo.

«In effetti il tuo messaggio mi ha fatta ridere. Ma cosa c’entra ora? Percepisci i miei pensieri?»

«Forse quelli di tutte le persone con cui dialogo.»

Mi guarda come se fossi matto. «Possiamo interrompere qui l’appuntamento, se lo desideri.»

Lei scuote la testa. Se mi senti dimmelo.

«Sì, odo la tua voce»

Ad un tratto vengo investito dall’idea che questo dono potrebbe comportare.

«Non desidero questa nuova trama sensoriale»

«Come no? Sai quello che gli altri pensano! Sei una specie di super eroe», dice lei, stupefatta.

«Appunto, non mi aggrada saperlo.», stringo le braccia al petto in una posa difensiva, spaventato da quel nuovo modo di vedere le cose. Mi spaventa sapere cosa gli altri pensano di me.

«Posso dirti un segreto?»

 

Mi ha portato a casa sua. Ora sono seduto su un divano di finta pelle, rosso, e mi guardo attorno con aria spaesata. È un tripudio di colori. Nessun mobile ci azzecca qualcosa con l’altro e ognuno ha una colorazione diversa. Sembra che un arcobaleno sia andato a vivere in quell’appartamento. Anche le pareti hanno colori sgargianti. E alle pareti sono appesi quadri, quadri e ancora quadri. Nessuna foto o poster. Solo dipinti. Tutti con il medesimo stile eppure ognuno diverso dall’altro.

Christine è una pittrice, lo fa per mestiere, anche se non molti comprano le sue opere. Allora per sopravvivere fa anche la cassiera.

Mi sta raccontando la sua vita, io resto assorto e in ascolto, assorbo ogni sua parola. Mi mostra i suoi disegni.

Poi l’argomento si proietta su altro.

«Molto spesso disegno cose che non conosco, che non ho mai visto. Però i miei acquirenti dicono di aver visto o sognato quello che dipingo.»

«Questo è un bel dono», dico, guardandola ammirato.

«Però è successo tutto di colpo.», dice lei, sedendosi al mio fianco dopo aver gesticolato tra i dipinti.

«Quando avvenne la prima volta?», domando, incuriosito.

I suoi occhi cristallini si perdono a guardare un punto fisso, a osservare il nulla.

«Non lo ricordo bene. Ero stata a una festa e.. Mi vergogno a dirlo»

La vedo in tutta la sua vulnerabilità, e nonostante non la conoscessi, mi sento vicino a lei, legato a lei.

Con tono pacato dico:«Non devi angustiarti. Oramai sono a conoscenza del tuo “segreto”, e tu del mio. Abbiamo una sorta di legame.»

Mi guarda negli occhi, porgendomi il suo mondo segreto, i suoi pensieri.

«Come te, la sera prima sono stata a una festa, e mi sono drogata.»

Conosco questo fatto ancor prima che me lo dica, ma continuo il dialogo, ignorando la voce dei suoi pensieri che martella contro il mio capo.

Ricordo la sera precedente, ricordandomi della droga offerta. E provando repulsione verso il me ubriaco e debole che accetta.

«Credi che questa peculiarità abbia significato su questi doni?», domando, assorto nei miei pensieri.

«Forse.», pure lei ne sa quanto me, «So solo che non siamo pazzi.»

In una frazione di secondo tutto il discorso sulle paranormali attività del nostro cervello è dimenticato. Chiacchieriamo placidamente, come se ci conoscessimo da sempre. Forse perché in qualche modo le sono entrato nella testa. Posso leggerla in qualsiasi momento. E di tanto in tanto capita che un suo pensiero sfugga all’ermetismo del suo cranio per entrare nel mio.

Non ci faccio molto caso, bado più alle sue parole. Però è stuzzicante sapere cosa lei pensa.

Ha una mente brillante e profonda piena di sfaccettature.

Mi invita a cena e accetto.

«Adesso sai a cosa sto pensando?», domanda improvvisamente, prendendomi alla sprovvista.

«Sì.», ammetto, senza vergogna. Perché avere veli con una persona che non può averne con me? Però in qualche modo mi dispiace non poterle lasciare quella tacita privacy che esiste tra le persone che discutono. Mi sento in dovere di aggiungere:«Ma è una cosa che non so controllare, vorrei impedire ai tuoi pensieri di penetrare nella mia mente.»

Mi sento in imbarazzo quando il suo cervello formula ambiguità sul verbo “penetrare”, che subito il mio sesto senso capta.

Però sono un uomo, appena uscito dall’adolescenza, in compagnia di una bella ragazza cui mente mi affascina più del suo aspetto. Alchimia perfetta. Mi sporgo e incontro le sue carnose labbra.

La mente tace e vengo avvolto in un oblio di sensazioni fisiche. Tatto, olfatto, vista, udito, gusto. L’essenziale. Il tangibile. Fanno parte di me. L’astratto si zittisce ed è tutto più reale e primitivo.

Le fibre del corpo si tendono e tremano, producendo una vibrazione, che pare la medesima vibrazione con cui le particelle si muovono nell’Universo. E tutto torna sul vago sentore delle percezioni che gli esseri umani non captano.

Scoprire la sostanza di cui sono fatti i pensieri mi rende più filosofico e profondo?

Forse. Ma ora mi sento parte di un tutt’uno. Questo dono potrebbe piacermi.

 

Mi sveglio. Ci metto un po’ a capire in che luogo mi trovo. Sono immerso in coperte rosa shocking, verde acido e arancione. L’accozzaglia di colori mi ferisce la vista.

Al mio fianco Christine sta ancora dormendo. Le accarezzo la nuca bionda, poi mi alzo. La luce fioca che penetra tra il tessuto delle tende color indaco mi suggerisce che è già giorno. Cerco una sveglia o un orologio, ma in quella strana casa non ne è presente nemmeno uno.

Raccolgo i miei vestiti da terra e li indosso. Sullo schermo del mio cellulare sono segnate le dieci del mattino. Sarei dovuto già essere a lezione, all’Università.

Lascio un biglietto a Christine per dirle che sono via e di richiamarmi.

Ho bisogno di vagare senza direzione e schiarirmi le idee.

Salgo sul primo autobus che incontro.

 

Il mezzo di trasporto si muove di scatto nella direzione prefissata. Guardo assorto fuori dal finestrino, seduto nel mio posto solitario. La gente attorno a me chiacchiera e ride, altra in silenzio ascolta la musica o messaggia al telefonino. Emetto un sospiro di noia e di insofferenza, mentre i miei pensieri sfilano fuori dal vetro assieme al paesaggio che guardo senza vedere.

Mi pare di udire un sussurro nel mio orecchio e mi volto di scatto.

Ognuno è intento nelle proprie faccende come un attimo prima, nessuno pare essersi interessato a me.

Mi massaggio una tempia, colto da un improvviso dolore pungente al capo.

Il mio primo pensiero è rivolto a una bella pastiglia per il mal di testa, poi giungono altri pensieri come cosa cucinare per pranzo, andare a prendere Katy, il lavoro stressante.

Mi irrigidisco. Quei pensieri non mi appartengono. Mi guardo ancora attorno, scrutando l’enorme quantità di gente che mi circonda e mi sento soffocare. Uno ad uno in loro pensieri mi vengono a trovare, entrano nella mia mente fingendosi miei pensieri e volano via per dare posto alle altri voci interiori della gente.

Curioso come ogni pensiero abbia un timbro, un tono di voce diverso. Curioso come soffocante quando non sono più una ad una ad entrare nel mio cervello, ma in cinque, dieci, incontabili voci, che parlano, parlano, senza sosta, tutte insieme e che non dicono niente.

La mia testa pare esplodere, di un dolore lancinante. Percepisco come un cuneo immaginario piantato nel mio cranio.

Poggio i gomiti sulle mie gambe e abbandono mollemente la testa tra le mie mani. Stringo le dita sul mio cuoio capelluto, tentando di creare un’inutile barriera alla materia eterea di quelle voci mentali.

Perdo la mia identità. Sono mille persone con i loro mille pensieri e non sono niente.

Mi pare di impazzire.

Mi devo ricordare di respirare.

 

 

Scendo alla prima fermata che fa il pullman, barcollando, cadendo dai pochi gradini che mi dividono dal suolo. Fuggo da quel marasma di pensieri che mi soffocano come se stessi annegando. Mi rialzo. Corro. Senza direzione, senza nemmeno sapere dove sto andando, guidato solo dalle gambe. Ormai la mia mente è impazzita e non comprendo più nulla. È dopo qualche minuto che mi fermo e focalizzo il posto in cui mi trovo, cercando di calmare il battito del mio cuore impazzito. Sono proprio davanti al capannone dove poche sere prima si era svolta la festa. Sembra tutto deserto e abbandonato, senza vita. Ci metto un po’ a visualizzare un’altra figura umana,  così immobile e tetra da apparire parte integrante del paesaggio.

Indossa un impermeabile nero, sotto esso non intravvedo nulla, ma è un uomo sulla quarantina, completamente pelato. Fissa la porta del capannone con aria assorta. Poi silenzioso si volta e inizia a fissare me.

Dopo un attimo di esitazione mi muovo verso il terminare della strada, ignorando quella figura, continuando la mia esistenza.

Qualcosa in quell’uomo stona con tutto il resto.

Un tocco sulla spalla mi fa sussultare e bloccare il mio cammino. Mi volto e il mio sguardo incontra una mano bianca e gelata, poi il braccio che gli appartiene, poi il viso sorridente dell’uomo. Come ha fatto a raggiungermi così velocemente, senza emettere rumore alcuno? Sono pietrificato e i suoi occhi neri puntati su di me paiono inghiottirmi.

«Mi vedi?», domanda, rilassato. Io non sono rilassato per niente. Ingoio a vuoto, la gola secca.

Che domande sciocche. Tento di aprire la bocca per rispondere, ma mi rendo conto di essere paralizzato dal suo tocco, letteralmente. E mi rendo anche conto che lui non ha aperto la bocca per parlarmi.

Comprendo dalla sua espressione che ha capito a cosa sto pensando. O che lo ha sentito.

«Ti ricordi questa?», domanda ancora. Ora nell’altra sua mano, apparsa da chissà dove, ha un pacchettino. Riconosco la droga dell’altra sera.

«Curioso come la mente umana sia così grande e che nessuno sia in grado di utilizzarla a pieno e nel modo giusto, non trovi?

Poi che nome.. Mente. È proprio vero, la mente “mente”, se non la sai controllare. Ti illude. Ti inganna, mettendoti in testa il dubbio delle cose chiarissime, le paure. Ti limita. Ti soffoca. Lo avrai riscontrato pure te.

Forse ti sentirai grandioso o terribilmente sfortunato a percepire i pensieri.. Mi senti vero? Sì, che mi senti.

Be, non sei nulla di tutto ciò, sei come tutti gli altri. Solo che nessuno sa di poter fare quello che stiamo facendo noi due, parlare senza aprir bocca. È bastato un pizzico di questa polverina bianca per sbloccare la tua mente.»

Comprendo con orrore tutto quello che sta dicendo, o meglio, pensando. Ma altre domande mi sorgono. Chi è? A che scopo tutto questo?

«Frena quel dannato cervellino, che sovraccarichi il mio. Gli esperimenti non hanno diritto di pensare. Almeno, non di testa propria.»

Sento le ginocchia farsi molli, però non crollo. Lui mi sostiene. E mi inietta qualcosa nel braccio.

Poco a poco i miei pensieri si fanno sempre più lenti, come immersi in un fluido vischioso, fino a cessarsi. Sono vivo e a malapena me ne accorgo.

Respiro. Sono poco più di una pianta.

Una luce che proviene dall’alto mi acceca, poi il nulla.

 

 

 

 

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